Cine-Statica

Presentazione scritta a illustrazione del percorso espositivo

Se per alcuni decenni, a partire dai suoi esordi, la fotografia (etimologicamente intesa come “rappresentazione per mezzo della luce”) ha sofferto del ruolo di “sorella povera” della pittura nella riproduzione di soggetti statici, la raffigurazione del movimento l’ha pienamente riscattata da quest’umiliante subalternità, ribaltando i valori in campo. L’immediatezza dello scatto e la possibilità di raffigurare, attraverso la luce, la stasi del dinamismo la rendono infatti l’espressione artistica più idonea a tale scopo.

Il titolo di questo complesso percorso espositivo di Flora Torrisi, “CINE-STATICA”, racchiude come meglio non potrebbe, in una formula ossimorica secca ed essenziale, questa peculiarità e potenzialità della fotografia. Nelle immagini qui presenti è proprio il perfetto e calibratissimo combinato di quiete e movimento a costituire un fil rouge che si snoda, con assoluta coerenza e consequenzialità, dalla prima all’ultima foto, in una sorta di ideale climax discendente che dalle vertigini ludiche ed esplosioni di colori di una giostra conduce all’inerzia (non solo dinamica ma anche cromatica) di due figure che sembrano emergere dalla quiete di un silenzio arcaico.

Come risulta evidente all’osservatore si tratta di un percorso dello spirito, simbolico, prima ancora che figurativo, una sapiente e allusiva trama di immagini che riconduce inevitabilmente all’essenza del pensiero orientale e, al tempo stesso, affonda le sue ragioni nelle più tradizionali speculazioni del pensiero occidentale. Un tema, quello della dicotomia movimento-stasi, che è quindi trasversale sia culturalmente che cronologicamente, attualissimo eppur antichissimo. Ma lungi da una concezione esclusivamente filosofica questi scatti d’autore sono anche fotogrammi di un’istantanea della vita quotidiana, fatta del frenetico viavai di automobili e di rilassanti docce a fine giornata, di estemporanee vivacità come di riflessive contemplazioni. In questa accezione la sequenza di scatti qui esposta reinterpreta, a tratti, lo spirito del kinoglaz di Dziga Vertov, il cineocchio che riproduce «la vita colta sul fatto», mostrandola nel suo prodursi quotidiano con i suoi protagonisti, gli esseri umani, ignari di un obiettivo che li scruta, colti nel momento in cui non recitano alcuna parte nella commedia-dramma della loro esistenza. Come quelle figure immobili di fronte al roteare vorticoso di una giostra multicolore, quasi una metafora della vita stessa, carosello febbrile che stordisce, annichilisce. Cinetica allo stato puro, macchinari in moto come le autovetture che sfrecciano sulla strada lasciando scie di caotico rumore nel bianco assoluto di scatti luministicamente sovraesposti. Meccanismi impazziti. Un bianco che ancora, nella foto intitolata “Steps”, sembra inghiottire (anzi, meglio, corrodere) quelle sagome umane inconsapevoli di figurare così, a loro volta, alla stregua di automi senza più nerbo né carnalità. Un bianco che non è assenza bensì compresenza di ogni cosa, così come esso è la somma di tutti i colori: un caos primordiale in cui l’uomo sembra muoversi invano, senza una meta né una strada segnata, avvolto com’è dall’indefinito, da un senso di “vuoto” che altro non è se non la pienezza assoluta perché, come è scritto nel Libro dei cinque anelli di Miyamoto Musashi, «anche il Vuoto possiede un ritmo». E poiché il ritmo è movimento ripetuto, in “Drum” è proprio la successione di ideali cellule ritmiche a scandire il movimento, a rendere lo scatto vibrante di suoni, consentendo così alla fotografia di raggiungere la massima ambizione, quella di raffigurare l’invisibile, ossia di rendere la musica visibile all’occhio. Immagine ritmata diventa, quindi, anche il semplice balzo gioioso e spensierato di una ragazza, quasi un passo di danza, un passo a due con la propria ombra. L’inquadratura ardita e la prospettiva sorprendente ne capovolgono il rapporto: è dall’ombra che percepiamo più nitidamente il movimento del corpo, e non viceversa.

Ma cogliere il ritmo nelle cose significa innanzitutto scomporle, notomizzarle, vivisezionarne le coordinate spazio-temporali, trascendere il senso del tempo kronos per cogliere l’aiòn, l’immediato, l’attimo che svanisce continuamente… e la dannazione faustiana di bloccare quel momento così inafferrabile è qui raggiunta da uno strumento ottico, nello statico dinamismo di uno scatto fotografico. È così realizzata la concezione tutta platonica dell’istante («to exaíphnes») come sintesi mediana di stasi e movimento. Equilibrio sottilissimo che diventa pratica esistenziale nella tradizione filosofica orientale a cui queste immagini fanno pure chiaro riferimento. E lo si vede apertamente nella foto titolata “Nirvana” dove è reso visivamente questo concetto dicotomico di stasi dinamica, secondo il principio buddhista dell’«agire senza agire» che conduce all’Illuminazione, una “stasi” che evolve e diventa “èstasi” (èk-stasis), letteralmente “essere fuori di sé” in quanto “distrazione della mente” in una forma di esaltazione dello spirito che comporta inazione dei sensi e cessazione di ogni movimento.

Significativamente compressa tra i due termini estremi di questa dicotomia è “Terminal”, la sala d’attesa, luogo emblematico di transito e, al tempo stesso, di sosta, in cui dominano le tinte forti ed elettriche, sbalzate violentemente dal bianco, e l’inquietudine delle linee oblique a dare un senso quasi pericolante alla composizione. Elementi mirabilmente tesi a rappresentare lo status di quei viaggiatori in bilico tra moto e riposo forzato, tra nervosa attesa e l’affanno di una partenza, in uno scatto che sembra così interpretare il principio taoista dell’assenza di quiete intesa come «uno star seduti correndo veloci» (Chuang Tzu). L’effetto straniante di questi scatti luministicamente sovraesposti si rafforza con l’artificio grafico di un bianco che, essendo appunto pura luce, ora ferisce gli occhi ed ora ricopre le cose del mondo come un candido sudario, ovvero le anima e le placa al tempo stesso.

Apparentemente più facile per un fotografo è rappresentare la semplice stasi, difficilissimo però non incorrere nell’ovvietà di una posa scontata o nella piattezza di soggetti inerti… poiché, con un virtuosistico azzardo logico, la vera immobilità è non tanto nell’inerzia tout-court bensì in ciò che si è mosso un attimo prima e si muoverà un attimo dopo ma che, in quel preciso istante, riposa. Riposa una macchina spenta, parcheggiata in attesa di un nuovo avvio; riposano i bagnanti sotto una doccia al termine di una nuotata; riposa l’uomo, la cui presenza sulla sponda è tradita solo da un riflesso, in un tramonto irreale che sopisce e cristallizza in liscissime lastre dorate le anse e le ansie del mare.

E riposa anche il mimo, l’artista di strada nei panni della morte, nella foto che forse più di ogni altra merita il titolo “Stasis”. Staticità assoluta in posa verticale, braccia in croce, un volto di plastica inespressiva che ne rafforza la fissità. Il tripudio di colori della giostra rutilante si è spento in una gradatio di nero-grigio-bianco: è lo spegnersi della vita, del movimento. E così potrebbe completarsi il ciclo che dal movimento-kínesis-vita conduce all’immobilità-stasis-morte. E sarebbe anche un ciclo apparentemente compiuto… se non ci fosse l’ultima immagine che conclude realmente quest’itinerario visivo e visionario di Flora Torrisi che, come un coup-de-thèatre o un’appendice che sovverte la trama di un romanzo appena letto, offre alla nostra riflessione una nuova vita (“Re-birth”). Un ultimo scatto, formalmente minimalista ed essenziale, genialmente sospeso tra quiete e moto, che è pura emersione da un bacino amniotico. Un ultimo scatto che, in realtà, non potrà mai essere davvero l’ultimo poiché ha in sé lo stigma di un nuovo inizio, l’impronta di una catartica metempsicosi di un’umanità visivamente riportata a uno stadio larvale quasi prenatale, e che sintetizza perfettamente il concetto buddhista di “attraversare il fiume”, come simbolo del passaggio post mortem attraverso il mondo dell’illusione per raggiungere l’Illuminazione, la Rinascita.

In definitiva, CINE-STATICA è l’essenza stessa della vita, la sua legge basilare e apparentemente contraddittoria, qui ricondotta a unità attraverso l’espressione fotografica, attraverso un percorso figurativo che ci porta direttamente a contatto con i ritmi più autentici dell’esistenza.

Giorgio Leonardi